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Tutto comincia non con la scarpa, ma con la lana. Come in altre parti dell’allora cristianità, nel medioevo il settore tessile era quello di punta. In un’economia di sussistenza tutti dovevano pur vestirsi e quasi tutti indossavano lana, estate compresa. La vocazione imprenditoriale di Vigevano nasce più di mezzo millennio fa ed è stata capace nei secoli di reinventarsi più volte.
LANA La manifattura di indumenti era un ambito in cui era possibile arricchirsi: la famiglia Medici parte dalla lana, il regno d’Inghilterra si specializza in panni di qualità non eccelsa, ma a un prezzo competitivo. Proprio il diffondersi dei panni inglesi, unito alla perdita di centralità della penisola italiana in conseguenza delle esplorazioni geografiche, mette in crisi la manifattura laniera italiana e anche quella vigevanese, che nella prima parte del XVI secolo era capace di produrre anche 1200 pezze all’anno e di impiegare un quarto delle famiglie.
SETA E COTONE I vigevanesi si indirizzano alla produzione serica, impiantata già al tempo di Ludovico il Moro. Nella città ducale ci si dedica soprattutto alla lavorazione: trattura (lo svolgimento delle bave dai bozzoli per formare il filo), torcitura (per ottenere il filato), filatura. La materia prima arrivava dalla Lombardia e tra XVII e XVIII secolo Vigevano diventa un centro di riferimento, con circa 3mila addetti, 26 torcitoi indipendenti, 521 telai per la tessitura e una produzione apprezzata di stoffe, tappezzerie damascate, fazzoletti, nastri e altro. In una dimensione proto-capitalista l’attività è artigianale e si svolge a casa, ma poco per volta alcuni artigiani emergono. Nel 1806 compare la prima fabbrica per la tessitura di cotone vigevanese, che ha per sede il convento dei cappuccini confiscato nel periodo rivoluzionario e napoleonicoi. Il XIX secolo, con la Restaurazione, i passaggi dall’Austria al Regno di Sardegna, i dazi, frena lo sviluppo industriale, anche se questo non impedisce alcune innovazioni: anche a Vigevano si inizia a usare il telaio Jacquard, in ambito serico s’impongono alcune famiglie come Negrone, nel cotone nasce la Corsiglia-Figaro. Di nuovo arriva una svolta:
intorno al 1850 la malattia del baco da seta dà un definitivo al settore, che inizia un lento declino nonostante la costituzione nel 1898 della “Società filatura Cascami Seta”.
TENTATIVI I vigevanesi cercano allora nuove strade. Nascono una fonderia, una prima officina meccanica, il cappellificio Novi Martina, la conceria Caramora (importante supporto alla scarpa), la birreria Peroni (che poi prosegue altrove), soprattutto qualcuno inizia a produrre calzature non per la famiglia, ma per la vendita. In città sin dal tardo medioevo c’è una presenza di calzolai e ciabattini, che tuttavia resta marginale e volta al consumo interno. Nel 1608 è istituita la confraternita di San Crispino e Crispiniano, nel 1798 risulteranno 44 addetti, di cui 12 calcolai e 24 ciabattini, ma il passaggio decisivo è nel 1866: mentre l’Italia combatte la terza guerra d’indipendenza ed è sconfitta dagli austriaci nelle battaglie di Lissa e Custoza (tanto che gli Asburgo si rifiuteranno di cedere Veneto e Friuli direttamente all’Italia, chiedendo una triangolazione con la Francia), i fratelli Pietro e Luigi Bocca fondano la prima fabbrica di scarpe vigevanese.
IL DECOLLO Provenienti da una famiglia che lavorava nella seta, aprono nell’odierna via Silva e si caratterizzano per il profilo industriale: iniziano a usare le macchine da cucire Singer, passano alla lavorazione a giro (più adatta al sistema di fabbrica). Nel 1881 si dividono: Luigi si sposta in via del Teatro (oggi Merula) e poi in corso Milano: nel 1900 va a Francoforte e introduce l’attrezzatura della ditta Moenus, diventando il primo a meccanizzare il processo e usare l’elettricità, concessa dalla filanda “Fratelli Bonacossa”. Altri seguono l’esempio: nel 1875 Luigi Ferretti, nel 1880 Matteo Ferrari Trecate, quindi molte altre tra cui Pietro Giulini, un altro degli artefici dell’ascesa ducale – sarà insignito insieme a Pietro Bertolini e Ottorino Bossi del cavalierato per il lavoro – dove nel 1892 apre il calzaturificio “Nazionale” con 300 operai. Successivamente introduce le cucitrici meccaniche Mc Kay e riduce la manodopera, per poi lasciare la sua creazione e nel 1898 aprire un suo stabilimento in corso Cavour, un incubatore per futuri imprenditori vigevanesi, tra tutti proprio Bertolini, che fonderà col bresciano Pietro Magnani la Ursus.
ETA’ DELL’ORO É il momento del decollo: nel 1907 la calzatura è al primo posto per manodopera impiegata con 36 calzaturifici, 1470 addetti, 8000 artigiani a domicilio e una produzione giornaliera di 1100 paia di scarpe. La seta è in crisi (sopravvivono “Fratelli Bonacossa” e Cascami Seta), il cotone regge ma non tiene il passo (si segnalano Giuseppe Crespi e “Fratelli Gianoli”), prendono il via le officine per la costruzione di macchine calzaturiere (nel 1901 la Ferrari Antonio è la prima in Italia). La prima guerra mondiale dà un ulteriore impulso, negli anni ’20 Vigevano si consacra come la capitale della scarpa e, quando arriva la crisi del ’29, l’imprenditoria cittadina reagisce iniziando a produrre calzature in gomma (con la “Fratelli Rossanigo – Smart”), le “scarp da tennis”. Negli anni ’30 si consolida la coesistenza tra fabbrica e artigianato, che rimarrà la cifra caratteristica del “modello Vigevano” (e forse un limite). Le aziende praticano con regolarità la sub-fornitura ed emergono tacchifici, suolifici, tomaifici, formifici, scatolifici, cassifici, così come chi si occupa di orlatura, foderatura o taglio e chi mette a disposizione servizi, dai modellisti agli agenti di vendita.
CONSACRAZIONE Oltre alle maestranze interne: la Ursus Cuoio impiega 500 dipendenti, la Ursus Gomma 1400, “Fratelli Rossanigo” 1000, Ghibli 850. Nel 1935 la produzione annua supera 9 milioni di paia, circa un terzo della produzione nazionale; il presidente degli industriali Luigi Miavaldi afferma che «a camminare per le vie di Vigevano, c’è da stupire e da indugiare nel sentire quasi a ogni casa un ronzare elettrico o uno strepito di macchina o un picchiare di martello. La città dà l’impressione di essere tutta un grande laboratorio» tanto che
ogni cortile, si può dire, ha la sua fabbrica, piccola o grande.
Le fabbrichette – spesso negli appartamenti e cortili dove vivevano gli aspiranti “siori” come il Micca di Mastronardi – sorgono ovunque, la città è impegnata a brillare attraverso la “Settimana Vigevanese”, esposizione che nel 1939 diventa “Mostra Mercato Nazionale”.
MIRACOLO Se la seconda guerra mondiale rappresenta una battuta d’arresto, nel dopoguerra Vigevano è uno degli epicentri del miracolo economico italiano: i calzaturifici aumentano del 67.5% tra il ’51 e il ’61, gli addetti del 93.2% arrivando a 27500, la produzione arriva a 21 milioni di paia nel 1960. Nel 1948 riapre la “Mostra Mercato Nazionale”, che nel 1950 diventa “Internazionale” perché ormai la città è la capitale mondiale della calzatura. L’apice arriva nel 1963 con la produzione di 27.5 milioni di paia, ma già nel ’65 il trend è in declino. É l’inizio del reflusso, che diventa strutturale e non più congiunturale con la crisi del petrolio del 1973. Il miracolo economico si spegne in tutta la Penisola, a Vigevano il faro della calzatura non splenderà più con la stessa intensità.
CADUTA Nel ’77 le ditte sono 562, gli occupati 7188, nel 1989 il Comune acquista l’area “ex” Ursus (30mila metri quadri) per 3.5 miliardi al termine di una riconversione industriale fallita. Un ciclo economico tanto repentino da lasciare degli interrogativi: «Le cause – si legge nella pubblicazione “Santi & Calzolai” del Consorzio dei Santi Crispino e Crispiniano – costituiscono ancora oggi un “buco nero”, una sorta di libro che non si ha il coraggio di aprire. Una se non la prima delle ragioni di tale declino fu la concorrenza portata dai calzaturifici marchigiani». Ci furono anche cause interne, in primis «ognuno si ritirò nell’orizzonte mentale della sua fabbrichetta chiuso in un individualismo che, adesso, possiamo considerare la causa prima della sconfitta storica della Vigevano calzaturiera dei grandi numeri». L’Associazione degli artigiani cercò di costituire un consorzio, naufragando di fronte all’impossibilità di accordarsi su un sistema di acquisti collettivi di materie prime e macchine e sulla costituzione di un marchio di qualità. Anche il sistema creditizio cittadino non stimolò l’innovazione. Nel ’76 inizia il passaggio a una produzione di qualità e orientata sui mercati esteri, con prevalenza della piccola impresa; si impone il meccano-calzaturiero, che ancora oggi vede Vigevano tra i leader mondiali, così come nel campo di pelli e accessoristica. Dopo la lana la seta, dopo la seta la scarpa, dopo la scarpa le macchine, ma Vigevano oggi non è più “capitale”.
Giuseppe Del Signore