«Amare il nemico» è la premessa necessaria per intavolare una trattativa di pace. La natura del viaggio di Papa Francesco in Bahrain e delle manifestazioni per la pace in Italia è politico nel senso nobile del termine, di un contributo al bene comune.
IL VIAGGIO Non a caso il pontefice ha scelto di parlare da straniero in terra straniera e a pochi chilometri dal Qatar, dove tra meno di due settimane tutto il mondo si troverà per un momento di festa sportiva in occasione dei mondiali di calcio. In Bahrain papa Francesco ha partecipato al Forum per il dialogo tra Oriente e Occidente e ha firmato il “Documento sulla fratellanza umana per la pace mondiale e la convivenza comune” insieme al Grande imam della moschea di Al-Azhar Ahmad al-Tayyib, un documento che chiede ai leader di
fermare lo spargimento di sangue innocente, e di porre fine alle guerre, ai conflitti, al degrado ambientale e al declino culturale e morale
IL TESTO Una vera e propria agenda politica internazionale che parte dalla consapevolezza del pericolo che corre l’umanità se non si porrà fine alla guerra in Ucraina, epicentro di una crisi mondiale, e del rischio di inseguire «estremismo religioso e nazionale» così come «l’intolleranza», sintomi «di una “terza guerra mondiale a pezzi”» che rendono livido il cielo dell’umanità
in una situazione mondiale dominata dall’incertezza, dalla delusione e dalla paura del futuro e controllata dagli interessi economici miopi
Tuttavia alla politica basterebbe anche solo fermarsi a questi per intuire la necessità della pace. «Gli interessi di Ucraina, Europa e America sono connessi – scrive su Limes Doug Bandow, in passato “Special Assistant” di Ronald Reagan – ma restano diversi. E le ultime due hanno l’obbligo di rappresentare le loro popolazioni, non gli ucraini. Sfortunatamente per americani ed europei la guerra comporta alti costi e quasi zero vantaggi».
TRATTARE La ragione morale – ben argomentata da papa Francesco – la “realpolitik” e sempre di più le opinioni pubbliche – come dimostrano i 100mila di Roma – indicano che è tempo di mettere al centro la parola pace, attraverso una trattativa per un “cessate il fuoco” e un successivo accordo. Se i termini spetta alle parti in causa discuterli, è responsabilità del mondo intero che tale discussione avvenga: tutto il mondo paga e pagherà il costo di un’aggressione che viola il diritto internazionale, a cui sarebbe opportuno porre termine con una pace equa prima ancora che giusta. Nel 1919 Francia e Regno Unito fecero pagare “giustamente” il conto per intero alla Prussia sconfitta e vent’anni dopo furono di nuovo in guerra, nel 1945 gli Stati Uniti trasformarono i vinti in alleati e l’Europa occidentale (altrove decisamente no) ebbe la pace, pur nel contesto della guerra fredda. Rinunciando in parte alle riparazioni – la Germania subì decurtazioni territoriali, fu divisa in due e ristrutturò il debito con l’Accordo di Londra del 1953, impegnandosi a stipulare accordi bilaterali con i paesi che ancora vantavano crediti o chiedevano risarcimenti – si costruì la Ceca, fino all’Ue. Come recita il memoriale della guerra di Corea a Washington, “Freedom is not free”. La libertà non è gratis e neppure la pace.
Gds