Coronavirus, il baratto tra protezione e libertà

Protezione in cambio di libertà. Questo lo scambio che la popolazione dei paesi democratici di tutto il mondo sta facendo, pagato con la moneta sonante del controllo e della restrizione del perimetro dei diritti individuali. Un costo alto, ma che tutti sono disposti a sostenere di fronte all’emergenza, un po’ la stessa cosa che accade di fronte a un attentato terroristico. Paragone che regge? «Sì, si può fare – spiega Matteo Re, docente di storia contemporanea presso l’università Rey Juan Carlos di Madrid, vigevanese e specializzato in storia del terrorismo – sia il terrorismo sia la pandemia provocano paura, soprattutto quando sono in casa nostra. Quando si verifica un attentato chiediamo protezione alle forze dell’ordine e al governo, anche in questo caso chiediamo lo stesso al sistema sanitario e alle autorità. In entrambi gli scenari siamo disposti a cedere determinate cose per essere protetti». Come si accettano le telecamere nei luoghi pubblici e i controlli in aeroporto piuttosto che nelle stazioni ferroviarie, senza avere da eccepire di fronte alla perquisizione della valigia o a interrogatori anche molto invadenti, allo stesso modo nel quadro dell’emergenza epidemiologica si acconsente a rinchiudersi, nonostante le conseguenze che questo può comportare a livello personale e professionale; ma quanto a lungo? «Ora – ragiona Re – siamo a casa per la paura del contagio.

Se a breve la curva del contagio diminuisce perfetto, ma se non è così come fai a mantenere le persone tranquille e obbedienti in casa mentre stanno perdendo risparmi, lavoro, magari persone care?

Uno sforzo che potrebbe essere insostenibile a medio termine perché «mai sono stati fatti sacrifici così incredibili nel contesto delle democrazie occidentali. Il problema sociale è enorme, non oso immaginare cosa potrebbe succedere negli Stati Uniti da questo punto di vista, perché lì il sistema di welfare è differente rispetto a quello europeo e non è accessibile a tutta la popolazione».

VIETATO SBAGLIARE Per mantenere l’equilibrio è fondamentale che chi è al comando trasmetta sicurezza. «Per andare negli Usa – argomenta il docente universitario – siamo disposti a presentarci in aeroporto tre ore prima e fare una lunga trafila, lo accettiamo per sentirci protetti, anche se molte volte è un’illusione. Nel caso dei “lone actor”, i lupi solitari che prendono un coltello ed escono in strada, prevenire è impossibile, ma è importante la percezione della sicurezza». Un legame di fiducia tra autorità e cittadinanza che al momento in Italia dovrebbe essere rafforzato: «Uno degli errori di comunicazione del nostro governo è questo, devi far percepire alla popolazione che il livello di protezione è elevato; anche se magari non sai bene dove stai andando quest’idea di protezione deve essere trasmessa, invece in certi passaggi non lo si è fatto. Le iniziative contraddittorie ci danno un’impressione di instabilità e insicurezza. Un errore che potremmo pagare grosso, perché non tutti hanno una casa con giardino, alcuni stanno perdendo tutto e sono rinchiusi in un monolocale; la solidarietà dura fino a un certo punto». E così lo spirito di sacrificio di chi accetta provvedimenti che sarebbero forti perfino in un regime.

Stiamo accettando misure che sarebbero inaccettabili in una situazione normale, perché ci sembrerebbero totalmente totalitarie; pensiamo al fatto di non poter uscire di casa

«Si tratta – prosegue – di un meccanismo che si basa sulla collaborazione tra governo e cittadini, che in alcuni casi sfiora il “collaborazionismo”, come quando si mette alla berlina sui social chi viola quanto previsto dai decreti. Non è una critica della “delazione”, ma si tratta di un tassello che consente di capire quanto si sta creando». Si torna allo scambio di partenza, «tanto nel terrorismo quanto nella pandemia abbiamo paura e chiediamo protezione, ma questa non è gratuita. Un antifurto lo pago; il governo non chiede denaro, ma di accettare cambiamenti nella nostra vita a cui siamo disposti ad acconsentire solo in un momento di crisi».

COSA RESTERA’? Quali tracce lascerà quest’emergenza quando sarà passata dipende da quanto tempo durerà e da quale sarà il grado di “normalità” rispetto a ciò a cui si era abituati. «Guardando l’evoluzione nei paesi occidentali del terrorismo – argomenta Re – se negli anni ’70 avessero detto ai nostri genitori che in aeroporto ti possono aprire la valigia o in giro puoi essere fotografato, avrebbero pensato che scherzassimo, oggi invece è normale».

Così potrebbero diventare comuni nei luoghi pubblici i termoscanner oppure nei cinema si penseranno sale che garantiscano una distanza sociale e lo stesso potrà accadere nei ristoranti, per non parlare di quanto potrebbero essere stravolti gli eventi sportivi o le grandi manifestazioni in genere. «A Hong Kong – conferma il docente universitario – un conoscente ristoratore mi ha spiegato che le limitazioni sono state poche e i ristoranti sono rimasti aperti. All’ingresso ti viene misurata la febbre, se hai da 37 in su ti mandano a casa».

Cambierà anche la distanza dagli altri, bisognerà vedere se abitudini come baciarsi o abbracciarsi resteranno tali. Se questa situazione dovesse prolungarsi tornare alla normalità non sarà semplice, come non lo sarà ricominciare a socializzare

Il tempo è un fattore chiave: «Facciamo un’ipotesi, tra qualche settima il covid-19 sparisce, ma potrebbe tornare verso novembre-dicembre; almeno finché non avremo un vaccino o un farmaco il rischio c’è ed è probabile che dovremo prepararci a lavorare da casa e stare di nuovo isolati per dei periodi, in maniera programmata».

Giuseppe Del Signore

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