Rassegna Letteraria, gli ultimi incontri

Mario Calabresi e Gemma Milite: «Perdono senza nulla in cambio»

Mario Calabresi e Gemma Milite

Una passeggiata nella memoria. Non è stato né un dialogo né una presentazione l’incontro “Madre e figlio, come cercare la luce nella crepa”, che ha visto protagonisti Mario Calabresi e Gemma Calabresi Milite. E’ come se i due si fossero presi per mano davanti al pubblico della Rassegna e lo avessero accompagnato tra le stanze della loro famiglia, sullo sfondo il libro “La crepa e la luce” in cui Gemma Milite racconta il suo percorso verso il perdono dopo l’omicidio del marito, il commissario Luigi Calabresi.

«Il primo periodo è stato drammatico – ha spiegato – Avevo fantasie di vendetta, in 50 anni non l’avevo detto a nessuno, me ne vergognavo». Solo dopo ha realizzato che «odio e rancore ti divorano tutto», a partire dalla vita di chi resta: «Se Gigi fosse stato solo il padre o marito ucciso noi saremmo stati sempre delle vittime, invece volevo che fossimo ancora famiglia. E’ stata la mia prima scelta». Resilienza ante litteram,

una bellissima parola, purtroppo abusata – ha detto Mario Calabresi – che richiama il costruire un futuro nonostante le ferite.

Quello che cerca di fare l’associazione “Wondy sono io”, fondata dal giornalista Alessandro Milan in memoria della moglie. Per la famiglia Calabresi è stato il frutto di passi progressivi. La scelta di abbandonare la casa dei nonni in assenza di sicurezza economica, episodi comici come quello del militare – solo Mario considerato figlio di una vittima del terrorismo ed esentato, i due fratelli arruolati – e duri come la visione di uno degli imputati che abbracciava il figlio «con una tenerezza infinita», che costringe a concludere che «non è solo il mandante di un omicidio, è anche un padre affettuoso» e dunque a chiedersi «che diritto ho di relegarli all’atto peggiore che hanno commesso?». Secondo Gemma Milite nessuno perché «la parola per-dono implica un dono, quindi indipendentemente dal fatto che venisse chiesto e senza aspettare nulla in cambio».

Giuseppe Del Signore

Storie di amicizia in terra di mafia

Simonetta Agnello Hornby

Le vite di una coppia di amici in una terra governata dalla mafia. Simonetta Agnello Hornby con Alberto Rollo ha presentato domenica pomeriggio, in anteprima, il suo ultimo libro “Era un bravo ragazzo”: storia di due amici, di due madri, di due mogli, in una Sicilia occidentale in cui la mafia non spara, ma comunque governa l’economia dell’isola.

La Hornby danza, gioca con le parole, in due minuti, conquista il pubblico che ascolta incantato e la ascolterebbe per ore. «Sono nata a Palermo, ma la mia famiglia era di Agrigento. Andare a Sciacca voleva dire visitare un mondo moderno, glorioso, perché Sciacca è colta, potente. La mia Sicilia risente sempre del fatto di essere “terra di conquista”: in Sicilia siamo molto osè, ma voi non lo sapete. La donna siciliana è sempre stata forte. Ci sono due momenti cardine nella vita di un siciliano: il matrimonio e la morte».

Nel nuovo libro di Agnello Hornby i protagonisti, Giovanni e Santino, sono amici pieni di sogni e ideali, cresciuti nella Sicilia occidentale dell’autrice, dove la mafia è nata. E infatti “La mafia non è un vulcano spento” dice nella nota finale, la corruzione è nascosta. «Contro “Cosa nostra” abbiamo bisogno di funzionari e cittadini che facciano il proprio dovere – ha concluso la scrittrice e avvocato – ma io sono speranzosa, altrimenti non scriverei».

Isabella Giardini

Inventarsi un nuovo giornalismo

«Perché il giornalismo italiano è cialtronesco?». Si è aperto con questa provocatoria domanda il confronto a due fra Simone Spetia, giornalista de Il Sole 24 Ore, e Francesco Costa, vice direttore de Il Post.

«La stampa italiana ha ancora picchi di qualità, e spesso si trovano sulla tanto vituperata stampa cartacea – ha spiegato Costa – ma al fianco di questo non è stata fatta una riflessione opportuna sulla qualità del resto». Complice anche la formula “ibrida” della stampa italiana, che passa dalla grande inchiesta al gossip nel giro di poche pagine, e dalla fatica a reperire risorse per chi vuole innovare: «L’industria editoriale è quella che ha subito più di tutte l’effetto di internet. L’errore però non è stato tanto pensare che le notizie online potessero essere gratis, ma che quelle stesse notizie non dov’essero essere di qualità». Il modello da seguire? Di positivi ce ne sono, ma per Costa

ognuno deve trovare il proprio modo di stare sul mercato. Il giornalismo anglosassone ha il vantaggio della lingua e nel loro sistema tutto deve fare soldi, stare in piedi: non è sempre positivo, ma da loro funziona.

Occorre quindi non tanto reinventarsi, ma inventare qualcosa di nuovo: «Siamo la prima generazione che ha troppe informazioni: il ruolo della stampa è anche essere una guida in tutto questo».

Alessio Facciolo

Nonni “hacker” con la Guzzanti

Sabina Guzzanti

La pirotecnica, irresistibile, ironica, tagliente, saggia Sabina Guzzanti con Paolo Armelli ha parlato del rapporto che abbiamo con la tecnologia, nel nostro quotidiano digitale, partendo dal suo libro “Anonnimus”. E l’ha fatto con la schiettezza che la contraddistingue, inserendo qua e là battute che, però non lasciavano spazio alla risata ma al silenzio: quello della consapevolezza.

Ha detto: «Viviamo in un epoca sciagurata, ci facciamo divorare da ciò che ci circonda: la tecnologia ha cambiato i nostri processi cognitivi, ci stiamo lentamente trasformando in macchine che fanno, pensare è vietato, la frustrazione, il senso di impotenza davanti a questo è desolante». Ha continuato Guzzanti: «l’atto sovversivo non è mai il mezzo. Non è il libro ma il fatto che quanto leggo un buon libro l’attenzione su se stessi, torna, torna l’umanità». Poi

siamo forse inconsapevoli ma ci rubano continuamente dati, ci stiamo “ammazzando” rimanendo sempre attaccati al pc, al telefonino altrimenti dovremmo porre a noi stessi le grandi domande: faccio il lavoro che desideravo? Siamo diventati prigionieri di noi stessi.

Scrivere questo libro per Guzzanti «è stato divertente ma ho sofferto perché anch’io mi sono trovata davanti alle mie “prigioni” e ho dovuto guardarle, non è stato semplice».

Isabella Giardini

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