Un vaccino per tornare a sorridere dietro le mascherine

«Fammi una foto, dai!». Dietro l’azzurro della mascherina, si riesce a intravedere il sorriso dell’infermiera che, armeggiando con un braccio solo, passa lo smartphone alla collega seduta di fianco a lei.

«Quando mia figlia studierà questa cosa sui libri di scuola, voglio dirglielo: mamma c’era!».

I dipendenti ospedalieri sono stati i primi in città a poter accedere al vaccino contro il Covid 19. Per molti di loro, bisogna dirlo, si è trattata di una vera liberazione: il coronavirus, piombato quasi un anno fa nelle nostre vite, ha travolto ritmi e procedure di ogni struttura sanitaria. Al netto di qualche mattoide che crede che le ambulanze girino a vuoto per spaventare la gente, la maggior parte della popolazione, pur a volte con qualche rimostranza («Non si muore solo di Covid!»: verissimo, purtroppo) ha riconosciuto gli sforzi immani fatti dal personale sanitario per contenere e superare quest’epidemia.

La stanchezza fisica delle lunghe notti in corsia, quella è facilmente comprensibile; più difficile per un esterno è forse capire quella psicologica, provocata dal timore di ritrovarsi quel virus addosso, di trasportarlo inavvertitamente dalle mura dell’ospedale fino a quelle di casa propria o dei propri affetti. Una “scimmia” sulla schiena con la quale i dipendenti delle strutture di cura (dai medici agli infermieri, dal personale sanitario e amministrativo agli inservienti) a livelli diversi hanno dovuto convivere fino allo scorso 4 gennaio. Quando con uno “zac”, veloce e quasi indolore, le prime paure hanno cominciato a dissiparsi. Il vaccino non è una pozione miracolosa, né è possibile farlo a tutti nell’immediato: ma è una luce in fondo a un tunnel durato quasi un anno, una prima risposta reale a un virus che ha lasciato un carico di dubbi e incertezze che necessiteranno anni per essere chiarite. Ma che, nel frattempo, consente almeno di tornare a sorridere, pur sempre dietro a una mascherina.

Af

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